Poemetto lesbico (partorito in giornate uggiose)

Già l’alba accarezzò le lontane vette
e dalla valle sembrò lucente chioma,
latteo sorriso de li più fausti giorni.
Più giù, spirò il vento in aliti sommessi,
lambendo fronde di nodosi abeti
che nell’ombra si ergevan maestosi.
Insieme, come richiamati a nuova vita
fringuelli dal festoso canto migraron tra li rami
levando melodioso omaggio al nuovo giorno.

In breve, inondata dalla luce,
mostrò la valle gli intimi tesori
freschi boschetti e radure ombrose.
Ne l’intrico de la bruna selva, s’udiron
liete sorgenti, gorgoglianti rivi
in un quieto mormorio di purezza.
E come gemme dal cangiante aspetto
fiori imperlati di superstite rugiada
colmarono li prati di vividi colori

A tratti, parve la flora emanar un gentil soffio
che presto mutò in armonioso canto
soave inno alla maestà del mondo.
Ma fu abbaglio de li sensi, poiché
a comparir come visione tra li boschi
furon due ninfe, di sincero aspetto.
Ne la nebbia che ancor le forme ne velava,
concordi intonaron quieti motivetti
amabili, leggeri, e con suadente voce.

Dipoi, procedendo accorte a lenti passi,
sbucaron le fanciulle dall’arboreo viluppo
per apparir gioconde a nuova luce.
Fiere, ma dall’incedere leggiadro
eccole venire, sol di veli avvolte
fin nel mezzo d’un fiorente prato.
E qui sostaron, tenendosi per mano
per ammirar intorno, di gaiezza colme
il risveglio ameno d’una lieta primavera.

Aitante, dalla folta e bruna chioma
energica nei gesti ma tenero lo sguardo,
così era una ninfa, silvana creatura.
Quasi parea emanar vigore dal florido suo viso
da le gote chiare, colme di giovanil passione
e tutto era in lei caldo, piacevole, vivace.
Morbide le forme, e di ammaliante aspetto
ella appariva alcova di freschezza
gioiosa lode all’estasi dei sensi.

E la compagna, ampolla di virtù squisite
d’armonica figura nell’attillata veste
era delizia che la vista brama.
Chiare sembianze e nordico lo sguardo
uso a mirar distese sconfinate,
celava ardori con elegante quiete.
Limpida, serena ne le movenze accorte
ella, scultorea beltà fatta vivente
era l’incanto che s’addice al sogno.

Lievi, avanzaron tra i frondosi luoghi
saltellando allegre, scambiandosi sorrisi
muti regali di dolcezza avvolti.
E nel danzar sui verdeggianti campi
si divisero, per poi riunirsi gaie
nel giocondo volteggiar dei loro passi.
Leggiadre rotearon a braccia aperte
sfiorandosi le mani, eteree farfalle
cantando sorridenti sugli assolati prati.

E giunte sulle sponde d’un laghetto
slacciarono le vesti, superfluo ingombro
e s’affacciaron sul celeste specchio.
Nude, si mossero flessuose, rapide gemelle
tra spruzzi e risa, nell’acquorea dimora
come nereidi liete, gloriose tra le onde.
Infine, madide, stremate eppur raggianti
emersero radiose, cerbiatte innamorate
ad incontrar del giorno la soffice carezza.

Ne lo sublime slancio di eccelsi sentimenti
furon allor vicine tra vezzosi sguardi
i fianchi cinti da un sentito abbraccio.
Ed attente s’esploraron le tornite membra
plasmando, modellando le rispettive forme
come a inventarle a misura d’arte.
Per poi arrestarsi, rapite e affascinate
ne lo scoprirsi degne, mirabili prodigi
più ancor di quanto i sogni sappian forgiare.

Ancora strette, al principiar del vespro
quando l’estasi cedette alla stanchezza
di silenzi vollero ornar la spossata tregua.
Un sorriso balenò nei verecondi sguardi
come saluto alle autentiche passioni
laddove i cuori si scoprono immortali.
Lontana, oltre le vette dal dorato manto
Espero salì, a baciar le stelle
e due diamanti, da eterno amore avvinti.

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