Gelide sabbie di Hollywood

Se si vuole cogliere il senso esatto del termine “americanata”, si vada a vedere “Sopravvissuto – the martian” di Ridley Scott (quello di Alien e Blade Runner, che al tempo furono ben altra cosa), dove il protagonista Matt Damon è qui chiamato a vestire i panni del naufrago spaziale, creduto morto e abbandonato sul pianeta rosso dai suoi compagni di missione.
Il cinema ha già sfruttato altre volte il tema del Robinson Crusoe, talvolta con pregevoli risultati (si pensi ad esempio a “Cast away” di Zemeckis), ma approfittandone per sottolineare l’innaturale rapporto dell’uomo con la solitudine, animale indomabile che si può cavalcare solo in direzione della follia.
E certo che se lotta per la sopravvivenza dev’essere, non si può fare a meno di soffermarsi intorno alla forza d’animo non comune dello sventurato, al suo ingegno, alla capacità di risollevarsi nonostante i continui e quasi iperbolici accanimenti della natura. Ma nell’odissea marziana di Scott si entra a piedi pari nel territorio del superuomo, cioè di un fenomeno che dopo un anno e mezzo di totale solitudine non ha ancora perso nulla della propria lucidità mentale e nemmeno del proprio humor.
E’ vero che al Damon scappa una lacrimuccia alla fine quando lo vanno a salvare, ma è roba di pochi secondi. Dopotutto anche lui viene dal paese di John Wayne e di Terminator.
Sorvoliamo pure su qualche inciampo nell’accuratezza scientifica: se è vero che una spedizione su Marte non potrebbe trattenersi più di due mesi senza condannare i suoi componenti alla morte per leucemia, pare che le radiazioni solari al nostro eroe facciano un baffo. E che sia un fuoriclasse è dimostrato anche sul finire della pellicola, quando nello spazio oltre la rarefatta atmosfera marziana viene baciato dal sole senza riportare la distruzione delle retine. Che poi sia possibile resistere tutto quel tempo mangiando solo patate coltivate in uno stanzone concimando la sabbia marziana con i propri escrementi, sarebbe interessante verificarlo ma qualche dubbio è lecito.
Peccatucci perdonabili in una storia che ci parla di sopravvivenza in condizioni proibitive. Sennonché l’impressione è che si vada ad uccidere una bella trama sulla passerella delle capacità inventive del protagonista, in una sequenza interminabile di soluzioni tecniche difficili da afferrare e da spiegare al pubblico. Pubblico che forse vorrebbe specchiarsi in un essere umano e non in un automa che in cinquecento giorni di esilio perde il sorriso solo quando sta finendo il ketchup da mettere sulle patate.
In ultimo, graziosa l’idea di mostrare per una volta che il mondo non si divide in americani e selvaggi. Infatti i discendenti di Rambo questa volta sono costretti a chiedere aiuto ai cinesi, che forniscono un contributo secondario ma comunque lo forniscono, a differenza dei russi che invece non si vedono proprio, non si sa se per scelta del regista o per le pressioni dei produttori.
Consiglio, se ci riuscite, di stare alla larga da questa pellicola. Non saprete mai che cosa vi siete persi ma almeno non avrete perso due ore.

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