Il putinismo alla prova del fuoco

A Mosca la Duma ha votato a grande maggioranza il riconoscimento ufficiale delle repubbliche di Donetsk e Luhansk nel Donbass su una mozione presentata dal partito comunista. Il presidente sta ancora valutando il da farsi e se la richiesta non venisse accolta in tempi ragionevoli, si creerebbe una prima evidente frizione tra Putin e le aspettative del parlamento russo, compresi i deputati del suo partito.
A Washington devono aver intuito che l’alta tensione non fa bene alla salute politica di Putin e così non cessano di farne uso: movimenti di truppe ucraine già si registrano ai confini con la Transnistria, una fetta di territorio a est della Moldavia che da otto anni chiede di poter aderire alla Federazione russa. Invaderla equivarrebbe ad una provocazione senza precedenti nei confronti di Mosca, che difficilmente potrebbe limitarsi a reagire solo per via diplomatica.
Evidentemente una strategia portata avanti troppo a lungo permette all’avversario di trovarne i punti deboli e quella putiniana ha già sul groppone parecchi anni, essendo venuta chiaramente alla luce il giorno in cui l’Ucraina subì quel mutamento violento di regime che fu gestito telefonicamente da Obama in collegamento con Kiev, con dinamiche analoghe a quelle usate da Goering al tempo dell’Anschluss dell’Austria al Reich nazista.
Non so fino a che punto gli eventi di Maidan colsero alla sprovvista il governo russo, ma resta il fatto che questo agì solo a cose fatte premurandosi di difendere la Crimea dalle squadracce naziste che avevano già preso il controllo dei maggiori centri del paese. Una bella mossa senz’altro, con cui Mosca acquisiva importanti basi sul mar Nero, che in caso contrario si sarebbe tramutato quasi del tutto un lago interno della Nato. Tuttavia un vasto territorio grande quasi due volte l’Italia, fino a quel momento retto da governi altalenanti ma che comunque garantivano al paese una certa indipendenza, diventò un nemico alle porte con cui la Russia confina per oltre millecinquecento km. Se per ipotesi le forze occidentali oggi schierassero missili dalle parti di Charkov, questi potrebbero raggiungere la capitale russa in pochi minuti e non ci sarebbe nemmeno il tempo di avvertire i vertici politici. Naturale che per Mosca si era venuta a creare da quel momento una situazione estremamente preoccupante, considerando anche il fatto che quattro segmenti dei maggiori gasdotti diretti in Europa passano in territorio ucraino.
L’anno successivo Putin si decise ad intervenire in Siria, unico alleato mediterraneo affidabile, proprio mentre le cose per il governo di Damasco si stavano mettendo male. Anche questo può essere annoverato tra i successi sotto l’aspetto militare, avendo oltretutto colto di sorpresa i leader occidentali. In breve tempo una buona parte del paese fu ripulita dalle presenze jihadiste finanziate ed armate dagli occidentali e dai loro sodali, ma non in modo abbastanza risoluto da impedire agli americani di installarsi nelle aree confinarie del paese, chiudendo tra l’altro gli accesi siriani verso l’Irak e facendo spudoratamente man bassa delle risorse petrolifere locali. Assad mantenne il controllo delle maggiori città e i russi quello delle loro basi aeronavali, ma il nemico si accaparrò di fatto ciò che della Siria gli serviva, cioè la sua fetta orientale.
Inoltre, in virtù del fatto che sembrava possibile prendere a schiaffi gli interessi di Mosca senza patirne conseguenze, si erano mossi dal nord perfino i turchi, mentre dalla parte opposta gli israeliani davano inizio al rito dei raid aerei su obiettivi siriani senza che le batterie missilistiche russe osassero reagire né allora né in seguito. Ciò mentre un aereo russo veniva abbattuto al confine settentrionale siriano e l’ambasciatore russo ad Ankara finiva ucciso da un poliziotto turco, opportunamente eliminato dai suoi colleghi nei minuti successivi. Insomma un periodaccio, reso ancora più drammatico dal fatto che ogni tanto il presidente americano di turno, in cerca di audience e consensi, portava la flotta davanti alle coste siriane e ordinava il lancio di qualche decina di missili che finivano quasi sempre fuori rotta ma dimostravano che alla Nato è concesso ogni genere di abuso contro gli alleati di Mosca.
Sullo sfondo di tali eventi continuava quasi senza sosta il tentativo di genocidio degli abitanti del Donbass da parte dei reparti ucraini e in particolare delle milizie naziste, che nel loro paese godono di una certa libertà d’azione, un po’ come gli eserciti mercenari nelle epoche passate. Il tutto era ed è infine condito della serie continua di sanzioni economiche contro l’economia russa ed i suoi maggiori esponenti.
La politica estera di Putin non ha mai subito sostanziali modifiche e al di là delle letture agiografiche o demonizzanti che ne vengono offerte, si può dire che continua a basarsi sull’azione di contenimento dell’aggressività anglosassone, con risultati complessivamente non proprio eccellenti, a parte la perizia nello spegnere gli incendi altrui ma lasciando loro la scatola dei cerini.
Non è affatto chiaro ciò che Putin spera di ottenere a questo punto. Non essendo uno sprovveduto, capisce bene che la controparte non è in cerca di alcun accomodamento bensì punta all’annientamento della Russia come premessa a quel mondo unipolare che alcuni incauti consideravano la meta ultima della storia sul finire del secolo scorso. Forse immagina che prima o poi l’Occidente, a forza di tirar pugni all’acqua, comprenderà che l’arroganza è assai meno vantaggiosa rispetto ad una sana cooperazione. Oppure ritiene che Usa ed annessi reggicoda stiano semplicemente reagendo con furia belluina alla vista del proprio tramonto e ha deciso di sedersi a pazientare sulla riva del fiume. O ancora, più banalmente, affronta le sfide man mano che queste arrivano, ma in assenza di uno schema preciso sul lungo periodo, a parte la volontà di evitare a tutti i costi un’escalation incontrollabile.
Sta di fatto che se qualcuno cerca la rissa, è ben difficile evitarla. Si possono allontanare le divisioni dal confine ucraino, si può rinunciare a riconoscere le repubbliche libere del Donbass martoriate dal governo nazistoide di Kiev, ci si può astenere dall’intervenire militarmente per proteggere i suoi abitanti (molti dei quali oggi con nazionalità russa) dal genocidio in corso, ma non si arriverà mai ad un punto in cui la controparte si riterrà appagata.
L’idea di far sfollare in territorio russo la popolazione civile e in particolare i bambini, costituisce oggi una risposta di grande umanità contrapposta alla barbarie che anima le azioni del blocco occidentale, ma è sicuro che tale mossa non influirà sul prosieguo delle sanzioni, non frenerà gli appetiti territoriali della Nato e nemmeno aprirà gli occhi ai popoli europei, soggetti ad una propaganda sempre più menzognera dalla quale non sembrano poi molto infastiditi, dovendo più che altro occuparsi di quante dosi di veleno occorrono per poter sbarcare il lunario.
E allora, ci si chiede, che altro potrebbe fare Putin? Non vorrete mica che si metta a rispondere pan per focaccia col rischio che il mondo precipiti nell’apocalisse, destino sicuro se al suo posto ci fosse un rimbambito ricattato come il suo omologo d’oltreoceano. Dopotutto è una fortuna se almeno da una parte della barricata vige un certo grado di coscienza e di buon senso.
Tuttavia deve esistere e dev’essere trovato lo spazio per agire evitando sia i gesti sconsiderati che l’umiliazione di un costante quanto inutile sfoggio di disponibilità. A Washington non si cerca il casus belli né si pensa di poter affrontare direttamente le forze russe, né in Ucraina né altrove. Ma si ritiene di poter isolare Mosca dal resto d’Europa spaventando i suoi possibili punti d’appoggio nelle relazioni politiche e commerciali. Si ritiene di poter colpire i suoi alleati così da evidenziare che l’amicizia con la Russia non è conveniente, è anzi rischiosa perchè non offre un riparo paragonabile all’ombrello americano.
Putin chiede giustamente all’Occidente un atteggiamento di rispetto verso il proprio paese, ma non può ignorare che soprattutto nei rapporti internazionali il rispetto lo si ottiene sul campo (anche non di battaglia) e non lo si può pretendere per principio. Poteva evitare di riconoscere il governo golpista ucraino otto anni fa, visto che ogni eventuale contraccolpo sulle forniture energetiche sarebbe pesato soprattutto sugli acquirenti. Avrebbe anche potuto liberare militarmente il Donbass invocando il disastro umanitario: non vi sarebbero state per la Russia conseguenze più pesanti di quelle che già subisce per via delle attuali pressioni sanzionatorie.
Più sottobanco, si potrebbe armare la resistenza delle popolazioni al confine siro-irakeno, rendendo quei luoghi poco salubri per i locali presidi a stelle e strisce. Si può minacciare di fornire a Hezbollah quanto basta per togliere il sonno al governo israeliano, se questo non cessa immediatamente gli attacchi aerei sulla Siria. Si possono colpire e rendere inutilizzabili le strade che permettono agli occupanti americani e ai loro valletti curdi di rubare il petrolio nel nord-est siriano.
Sono solo pochi esempi di una lista abbastanza lunga da poter godere dell’imbarazzo della scelta. Senza mai perdere di vista i limiti oltre i quali non conviene spingersi ma senza timore di parlare l’unica lingua che presso le cancellerie occidentali riescono a comprendere.

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