Ucraina: generali alla sbarra

Durante una guerra nessuna dichiarazione ufficiale può valere quanto la mappa delle operazioni e questa in Ucraina sta mostrando un’imprevista situazione di stallo che se non muterà a breve non potrà che avere conseguenze politiche di rilievo.
Non è più epoca di guerre-lampo perché il costo economico dei grossi eserciti in manovra risulta proibitivo. Perdere un aviogetto o un plotone di carri significa bruciare miliardi, sacrificare sul campo più di qualche migliaio di soldati significa per i governi bruciare il proprio consenso. Tuttavia, che duecentomila militari siano pochini per invadere un paese più grande della Francia è del tutto evidente anche per chi non ha la giacca appesantita da medaglie e mostrine, a meno che non si proceda sul velluto tra ali di folla festante come unico intralcio all’avanzata.
Non sta andando così ma la cosa che più appare dissonante rispetto alle previsioni iniziali è che gli ucraini stanno tenendo un fronte lungo millecinquecento km che almeno per ora non presenta smagliature vistose in nessun settore né consente rapide penetrazioni alle colonne russe. Naturalmente occorrono molti uomini per fare ciò, ben più di quelli ancora a disposizione nell’esercito regolare di Kiev, il che dimostra che molti dei locali sono stati arruolati allo scopo. Ed è difficile pensare che l’abbiano fatto solo perché costretti, poiché in quel caso vi sarebbero diserzioni di massa e il fronte cederebbe subito almeno in qualche punto. Ma non è nemmeno pensabile che reclute al primo rapporto con le armi possano reggere l’urto di reparti composti da personale addestrato, quindi c’è dell’altro che va forse cercato nelle teste degli strateghi russi, probabilmente soggetti al grave peccato di sottovalutazione dei problemi cui si andava incontro.
Il primo elemento che saltava all’occhio fin dall’inizio della campagna era la scelta di non investire direttamente i centri urbani lungo il percorso, dato che ciò avrebbe portato a scontri per le strade, grosse perdite tra militari e civili nonché distruzione delle infrastrutture cittadine. E tutto lascia pensare che Mosca non voglia un’Ucraina in cenere bensì un paese che possa rapidamente guarire le sue ferite sotto un governo amico. Le località in cui erano presenti postazioni nemiche venivano invece aggirate, magari confidando che i difensori avrebbero perso le speranze e si sarebbero arresi. In qualche caso almeno all’inizio è andata proprio così, ma nei centri appena più grandi non è andata così affatto, anche perché in una città c’è sempre quanto basta per trincerarsi e resistere per diverse settimane, magari saccheggiando i caseggiati e privando i civili delle loro scorte.
Va da sé che per operare un accerchiamento occorre presidiare tutte le vie d’uscita dei difensori ed i reparti a ciò preposti devono essere sottratti a quelli avanzanti. Va bene farlo in un paio di circostanze, ma alla lunga il numero di uomini che si devono lasciare nelle retrovie comincia ad incidere sul corso delle operazioni. A tutt’oggi, sul lato nord del fronte, Cernigov, Shostka, Konotop, Sumy ed un’altra mezza dozzina di centri sono sotto assedio, cosa che comporta il dislocamento di numerose unità russe inevitabilmente dedotte dalle linee di avanzata.
Che gli ucraini avrebbero scelto di difendere i capisaldi urbani lo si poteva immaginare, anzi non vedo che altro avrebbero potuto fare, dato che non potevano certo affrontare i russi in campo aperto per giunta esponendosi alle incursioni aeree. Per cui la tattica di aggiramento continuo delle posizioni nemiche incontra in questi giorni i suoi limiti, il che lascia presupporre nei prossimi giorni un mutamento di strategia da parte dei comandi russi e probabilmente l’afflusso di altre unità.
Comunque la si giri, dal punto di vista mediatico chi ha progettato l’offensiva non passerà certo alla storia come brillante stratega ed anche la scelta iniziale di investire l’Ucraina lungo troppi assi di penetrazione in contemporanea lascia pensare che presso i comandi regnasse un ottimismo eccessivo.
Charkov è uno dei due maggiori obiettivi e si trova a soli 40km dal confine. Se non è stata occupata né aggirata fin dai primissimi giorni è perché le forze russe dislocate in quel settore erano del tutto insufficienti e se lo erano è perché il servizio informazioni non aveva un quadro chiaro della situazione e tutto ciò non certo nell’epoca degli esploratori a cavallo ma in quella dei satelliti e dei droni.
L’altro obiettivo vitale è naturalmente Kiev, un po’ più distante ma si fa per dire, solo 90 km dal confine bielorusso. Anche in questo caso l’avanzata si è trasformata in una guerra di posizione lungo i sobborghi settentrionali e nulla lascia pensare che le cose possano mutare in breve tempo.
Va un po’ meglio al sud, ma un’occhiata alla mappa evidenzia che i russi non stanno affatto concentrando gli sforzi contro un obiettivo alla volta, ma anzi premono lungo quattro direttrici tra l’altro piuttosto divergenti, verso Nikolaiev, Voznesensk, Krivoj Rog e Nikopol. In più cercano di raggiungere Zaporozhe sul lato est del Dnepr nonché di liberare Mariupol, tuttora nelle mani delle bande naziste del battaglione (ora reggimento) Azov.
A rendere più fosco il quadro ci sono i rinforzi di armi ed equipaggiamento che stanno arrivando dai vassalli Nato, nonché volontari euro-nazistoidi e mercenari fatti affluire un po’ da ovunque compreso il Medioriente. Non è detto che questi apporti siano in grado di influenzare il corso degli eventi, ma di certo se l’avanzata russa fosse stata anche solo vagamente simile a ciò che ci si attendeva, nessuno di costoro avrebbe ritenuto salutare un’escursione sul posto.
L’idea di aggirare i centri popolosi invece di investirli non è certo una novità ed è parte del bagaglio tattico nato con la guerra di movimento. Anche le colonne meccanizzate nell’ultimo conflitto mondiale avevano l’ordine di non impegnarsi in sanguinosi scontri cittadini, però le sopraggiungenti fanterie all’occorrenza lo facevano. L’analoga scelta del comando russo procede dalla necessità di minimizzare le perdite tra i soldati ma anche di evitare vittime civili, come dimostra la rinuncia a bombardare le aree residenziali in cui invece si arroccano senza alcuno scrupolo i battaglioni ucraini. D’altra parte questa è gente che per otto anni ha fatto il tiro al bersaglio sulle case e sulle scuole nei villaggi del Donbass, quindi del tutto priva di attributi equiparabili all’umanità ed alla coscienza.
Qui entra forse in gioco un altro fattore, cioè l’impatto mediatico del conflitto, il tentativo da parte russa di evitare situazioni che possano essere sfruttate dalla propaganda occidentale per giustificare le proprie scelte anche in fatto di sanzioni e rappresaglie economiche. Accorgimento che però sappiamo essere superfluo, visto che anche se questa fosse la prima guerra al mondo senza vittime innocenti, ci racconterebbero che Putin succhia il sangue ai neonati sapendo di essere creduti da gran parte dell’ingenua platea. Quanto ai contraccolpi commerciali, il punto più basso nelle relazioni tra la Russia ed i reggicoda atlantisti sta per essere raggiunto indipendentemente da ciò che avviene sui campi di battaglia.
Sono congiunture che invece non preoccupano i comandi Nato, che difatti possono spargere agenti al fosforo sulla popolazione irakena, defolianti su quella indocinese o sostanze radioattive su quella jugoslava senza che i pacifisti di casa nostra se ne adombrino. Anzi, abbiamo perfino avuto un ministro della guerra, oggi rieletto garante di qualcosa che non ricordo, che pubblicamente dubitò che la radioattività da uranio americano nuocesse alla salute.
Dunque è sconsolante ammetterlo ma non si può fare una guerra preoccupandosi di ciò che penserà il nemico. La Russia porterà in qualche modo a termine la sua “guerra d’inverno”, come quella che l’Urss iniziò contro la Finlandia alla fine del 1939, vincendo ma deludendo e provocando una diffusa quanto pericolosa sottovalutazione delle sue potenzialità reali. Allora, come credo anche oggi, la guerra mondiale era già iniziata.

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