La follia dilaga: l’ora della Lituania

Il giochino ucraino si sta rompendo nelle mani di chi l’ha ideato. Poteva succedere nel volgere di poche settimane nel caso i comandi russi avessero ammassato forze sufficienti a dar luogo ad un’avanzata-lampo. Ma tant’è, così non è andata e anche se si sta combattendo duramente per il possesso di ogni zolla di terra, chiunque può capire due cose molto elementari. La prima è che nessuno sarebbe tecnicamente in grado di far retrocedere i russi dai territori che hanno finora liberato e la seconda è che anche la prosecuzione dell’attuale guerra di logoramento non lascia in prospettiva alcuna speranza al regime di Kiev, che se non fosse eterodiretto dall’esterno avrebbe già chiesto i termini della resa. E ciò non tanto per le perdite che sta subendo al fronte, bensì per la progressiva demolizione delle sue infrastrutture causata dalle incursioni aeree e missilistiche.
L’Ucraina era un paese già economicamente disastrato prima del conflitto aperto con la Russia ed era tenuta in piedi dalle trasfusioni finanziarie dell’Occidente con l’unico fine di utilizzarla come pedina sacrificale nel modo che abbiamo visto. C’è da star sicuri che una volta venuta meno la sua funzione, l’Ucraina sarebbe abbandonata al proprio miserevole destino e al rischio di una frantumazione cui non sarebbero estranei gli appetiti polacchi. Inoltre una volta passata l’estate, il paese si troverà privo di combustibili non solo per il mantenimento di ciò che resta delle sue manifatture, ma anche per le necessità basilari della popolazione. Considerando inoltre che non giungerebbe alcun aiuto dai paesi Ue, ognuno già alle prese con le proprie grane in fatto di risorse energetiche, sembra chiaro che la guerra non arriverà al prossimo inverno indipendentemente dalle prove non proprio brillanti degli alti comandi russi.
Ecco che entra però in scena la Lituania, paese assai più piccino dell’Ucraina ma a questa simile per via delle frequenti commemorazioni ufficiali dei reparti nazisti locali che durante l’ultima guerra mondiale si resero protagonisti dei peggiori massacri di civili sul fronte orientale.
Aprendo una parentesi potremmo chiederci come sia possibile che dopo quasi mezzo secolo di capillare controllo sull’informazione e sull’educazione scolastica, in questi ed altri paesi dell’ex blocco sovietico si siano manifestati fin dai primi anni ‘90 tali rigurgiti non certo episodici, ma ciò meriterebbe un’analisi a parte. Chiusa la parentesi.
Il governo di Vilnius, in maniera improvvida, ha annunciato di voler bloccare il transito di merci che l’adiacente enclave russa riceve dal resto della Russia e che ne garantiscono la funzionalità sul piano strategico. Impensabile che abbia compiuto una simile mossa senza un incitamento esterno, unito alla garanzia di protezione in caso di una reazione militare di Mosca.
Ma è credibile che i gangster d’oltreoceano insieme ai loro capibastone europei abbiano deciso di comune accordo di condurre il gioco così vicino al punto di non ritorno? Se i russi decidessero di aprirsi un varco verso il loro territorio assediato entrando perciò in territorio lituano, l’intera alleanza atlantica si troverebbe in guerra in virtù dell’articolo 5 del proprio statuto. Ma se invece non osasse impegnare in combattimento i reparti russi, la Nato subirebbe una clamorosa perdita di credibilità soprattutto presso i governi ad essa più fedeli. E’ naturalmente possibile ed anzi prevedibile che Mosca non deciderà in tal senso, ma se dovesse farlo le conseguenze sarebbero istantaneamente ingestibili per tutti.
Stiamo forse assistendo da parte occidentale ad una surreale applicazione della “teoria del pazzo”, che può idealmente funzionare se il nemico può ancora arretrare senza perdere la faccia insieme al proprio ruolo di potenza. E’ d’uso attribuire a Nixon l’inaugurazione di tale metodo di confronto ma in verità già Kennedy nel ‘62 l’applicò durante la crisi dei missili davanti a Cuba. All’epoca Chruscëv fece un passo indietro all’ultimo minuto e si trovò un accordo, ma oggi ciò non è più possibile perché la Russia sta lottando per la propria sopravvivenza e non ha più un luogo in cui difenderla se non sulla linea del fronte. Fare il “pazzo” contro chi gioca con le spalle al muro ed ha settemila testate nucleari è da imbecilli, o forse sarebbe meglio dire da pazzi autentici.
Resta il fatto che la Russia dovrà per forza proteggere e fornire assistenza alla sua porzione prussiana sul Baltico e magari si rassegnerà a farlo mediante trasporto marittimo, che è comunque una soluzione più costosa. Prevedibilmente si terrà lontana da atti che potrebbero far sfuggire di mano la situazione, finché ciò sarà possibile. O almeno finora si è comportata in questo modo, ma non potrà farlo per sempre. Dispone della potente arma del blocco delle forniture energetiche con cui può spingere le cancellerie europee più assennate a premere su Vilnius per un ripensamento, ma questa è anche un’arma prevedibile e certamente prevista nell’ombelico dell’impero occidentale. Non dimentichiamo che la guerra in corso è stata provocata anche per recidere i rapporti commerciali tra i valletti europei e la Russia. Che ciò determini il collasso produttivo del continente è una conseguenza per nulla inaspettata ed anzi desiderabile nell’ottica d’oltreoceano ed è pure difficile credere che laggiù non avessero previsto l’effetto boomerang delle sanzioni anti-russe sull’economia dell’area Ue.
Il traballante centro dell’impero si mantiene ormai in piedi saccheggiando la sua propaggine europea, risucchiandone i capitali e piegandone la concorrenza tecnologica e manifatturiera attraverso il divieto di accedere alle risorse energetiche russe, economicamente vantaggiose. Il disegno ormai evidente di ucrainizzazione dell’Europa è reso possibile dai governi-fantoccio installati nei singoli paesi e impegnati a gareggiare in servilismo ai piedi dello zio Sam. Solo i popoli assoggettati possono invertire il processo dando il giro al tavolo, ma ciò non può accadere ovunque e non subito, considerando che l’intera area euro-atlantista sta ormai veleggiando verso la stretta autoritaria ed il regime poliziesco, di cui questo primo biennio di emergenza sanitaria costruita a tavolino rappresenta un efficace banco di prova.
Parallelamente a tale drenaggio di ricchezza ve n’è un altro non raffigurabile sul mappamondo ma legato all’impoverimento del proletariato e dei ceti intermedi a vantaggio del grande capitale e l’attuale stagflazione ne è il segno più evidente. Anche questo è saccheggio, verticale anziché orizzontale, apportatore di ulteriore disoccupazione, perdita del potere d’acquisto e riduzione della domanda, cui i nostri regimi aggiungono l’aumento della pressione fiscale e lo smantellamento dei servizi pubblici. Insomma per vivere in una rivisitazione delle piaghe d’Egitto manca forse l’invasione delle cavallette. Quanto alla morte dei primogeniti, ci penserà l’Oms, organo ormai al guinzaglio delle oligarchie finanziarie, una volta investita di poteri straordinari che renderanno obbligatori i trattamenti sanitari più redditizi per gli investitori, in barba ad ogni diritto costituzionale.
C’è in gioco molto, non solo i riassetti territoriali nell’Est europeo, ma innanzitutto il potere del dollaro come sostegno ad un sistema basato sulla rapina planetaria, insieme ad un modello sociale che ha trovato nella globalizzazione il modo per porre i lavoratori in competizione tra loro a vantaggio di chi non vuole confini allo sfruttamento.
Di solito la guerra la iniziano i giornali e la finiscono i cannoni. Tutti i nostri organi d’informazione sono da tempo reclutati col compito di renderci rassegnati ad un’epoca di privazioni e gli attuali vaneggiamenti sul razionamento dell’acqua, della luce e delle mutande sarebbero tutte iperboli ridicole se non fossero lo specchio di una follia da cui non si esce più con le buone maniere. Ci ritroviamo alleati con una banda di farabutti e governati dai loro manutengoli, esattamente come ottant’anni fa. E vinceremo solo se perderanno loro.

Una guerra da abbreviare

Chissà, sarà in virtù di un’inedita strategia che si prolunga una guerra pur disponendo delle forze necessarie per abbreviarla, che si diluiscono i reparti rendendo impossibile ottenere una superiorità netta in qualsivoglia settore, che si dà al nemico il tempo per organizzare qua e là periodiche controffensive. Di certo questo modo di condurre le operazioni rischia di provocare malumore e imbarazzo a vari livelli, tra i vertici militari come tra le truppe, nell’alveo politico come tra l’opinione pubblica. Se a cento giorni dall’inizio delle ostilità l’artiglieria ucraina può ancora bersagliare le scuole di Donetsk, città la cui messa in sicurezza rientrava tra gli obiettivi primari dell’offensiva essendo capitale di una delle repubbliche autonomiste del Donbass, è del tutto legittimo domandarsi se qualcosa è andato storto, se esiste la capacità di raddrizzare la situazione e in caso negativo quali conseguenze possono derivarne per i supremi responsabili.
Anche riconoscendo ai vertici del Cremlino strumenti di valutazione assai più precisi di quelli cui dispone ogni persona comune compresa soprattutto chi scrive, è evidente che la campagna è iniziata col piede sbagliato ed ha subito profonde correzioni in corso d’opera non appena ci si è resi conto di aver fatto male i calcoli, sia in relazione alla resistenza nemica sia soprattutto riguardo alle forze messe in campo per superare eventuali inconvenienti. Tali correzioni sono all’origine della rapida ritirata delle unità russe lungo tutto il settore settentrionale, decisione di per sé discutibile poiché se l’intenzione era quella di ricavare forze da dirottare verso altre zone, sarebbe bastato passare sulla difensiva magari attraverso un parziale arretramento volto ad accorciare il fronte. Invece si è deciso di tornare direttamente sulla linea di confine, che non è affatto più corta di quella precedentemente raggiunta, restituendo una vasta porzione di territorio la cui conquista era sicuramente costata in termini di vite e materiali, esponendo la popolazione locale alle rappresaglie ucronaziste, fornendo insperati motivi di fiducia al governo di Kiev così come ai suoi burattinai Nato e infine esponendosi al pericolo di incursioni in territorio russo, trascurabili sul piano strategico ma pesanti sotto quello mediatico.
Dopodiché ci si attendeva tutt’altra musica con l’inizio della cosiddetta seconda fase, ma al netto di qualche evento caratterizzato da un maggior dinamismo a ridosso del Donec e in direzione di Artemovsk, la pressione russa continua ad essere insufficiente per produrre sfondamenti degni di nota nonostante ora si combatta lungo un fronte la cui lunghezza è all’incirca un sesto di quella originaria. A ciò si aggiunga che i russi godono dell’assoluta padronanza dei cieli e di una superiorità illimitata riguardo alle forze missilistiche. Sul lato meridionale, quello che all’inizio aveva regalato al comando russo le maggiori soddisfazioni, la situazione è bloccata ormai da un mese e le forze di Mosca non registrano alcun progresso su settecento km di fronte, ma nemmeno la conquista di un paesello di tanto in tanto, cosicché tutta questa inattività ha permesso agli ucraini di abbozzare qualche contromossa senza pretese ma dal valore simbolico a nord di Kherson. Che lo scopo dei comandanti russi sia quello di ridurre al minimo la devastazione dei territori conquistati è una scusante vecchia già di tre mesi ma che continua a non stare in piedi. E’ evidente che una guerra di movimento produce meno danni e vittime rispetto a quella in cui si deve avanzare palmo a palmo.
Di certo nella cabina di regia della Nato sono convinti che il generale tempo militi dalla loro parte; dopotutto sono loro che hanno provocato questa guerra sperando di dissanguare l’economia russa fino a causare una crisi politica interna. Forse non avevano previsto che le sanzioni avrebbero al contrario irrobustito le finanze del nemico e che anzi si sarebbero ritorte brutalmente contro i suoi artefici, ma di certo non hanno ancora perso le speranze di giungere al risultato agognato. Meno chiaro è come possa risultare conveniente prolungare il conflitto nell’ottica di Mosca. Se anche le forze russe dispongono al momento di un vantaggio che non può essere vanificato dalla mole di armamenti che i paesi occidentali inviano al fronte, non è affatto garantito che tale situazione perduri sul lungo periodo, considerando che in cifre assolute la Nato spende ogni anno per la produzione e l’ammodernamento delle forze armate almeno quindici volte quel che sborsa la Russia. Comunque la si giri, un conflitto è come un sorpasso e andrebbe portato a termine senza tentennamenti e nel modo più rapido possibile. Una guerra-lampo avrebbe impedito alla Nato di organizzare contromisure e di adescare l’amo per i governi svedese e finlandese, e non avrebbe gettato ombre pericolose sulle capacità militari di Mosca, almeno in un conflitto convenzionale.
Cosicché se la guerra-lampo non si è vista il motivo è elementare, cioè non erano state allocate forze sufficienti per attuarla, né all’inizio né una volta constatato che al ritmo attuale il confronto potrebbe protrarsi a lungo, con somma soddisfazione dell’apparato militar-industriale americano e dei circoli bellicisti che partoriscono presidenti votati ai deliri di dominio planetario e preferibilmente rimbambiti. D’altra parte, che sul lato occidentale si sia smarrito del tutto il senso della misura lo prova in questi giorni la decisione di omaggiare Kiev con i lanciarazzi mobili Himars ed i droni Gray Eagle, in pratica quel che serve per colpire il territorio russo provocando reazioni non proprio prevedibili. A gettare più benzina sul fuoco è come sempre il governo britannico, incapace di comprendere che se le cose dovessero sfuggire di mano non basteranno come in passato la Raf e la Royal Navy a proteggere l’isola dalla distruzione immediata. Infine, non è detto che i presunti malumori che circolerebbero al Cremlino siano solo un’invenzione della propaganda nazi-atlantista, anche se a giudicare dalle stupidaggini che questa produce quotidianamente viene naturale pensarlo. Però è presumibile che a Mosca non tutti siano persuasi che si sta operando al meglio sul piano strategico ed una disavventura bellica può danneggiare pesantemente l’immagine di un capo di stato, anche quando gode di un robusto consenso tra la popolazione. Se ciò accadesse, quasi sicuramente l’indirizzo politico moscovita piegherebbe verso soluzioni ed atteggiamenti ancora più sgraditi alle cancellerie occidentali, che si ritroverebbero a rimpiangere Putin e la sua politica ispirata ad una disponibilità forse eccessiva, di cui l’Occidente ha colpevolmente e ciecamente abusato.

La pace arruolata

Immagino quanto possa dispiacere ai nostri gauleiter istituzionali che la battaglia di Nikolajewka, se così si può definire il tentativo parzialmente riuscito di sottrarsi ad un accerchiamento durante la rotta generale di un’armata, non sia avvenuta soltanto un giorno dopo, in modo da poter piazzare un cappello con la piuma sulla Giornata della Memoria, ricorrenza irritante per i tifosi della svastica, compresi quelli ai quali per incrollabile amor di pace stiamo inviando armi, munizioni e quattrini.
Non che i robusti soldati di tante battaglie, perlopiù perdute, da Adua a Caporetto e dai monti dell’Epiro alle rive del Don, abbiano in animo di oscurare gli orrori dell’Olocausto con le loro marcette, fanfare, virili molestie e bivacchi intorno alle damigiane. Tutt’altro, credo.
E’ che viene comodo e opportuno, volendo nascondere un passato impresentabile e difendere un presente meschino, specie in tempi come questi in cui ci si sforza di porre in luce il lato buono dei nazisti difensori dei “valori occidentali” e assidui lettori di Kant, adombrare certe celebrazioni divenute imbarazzanti per i fidi tenutari di un paese colonizzato.
Lo sa bene il Renzi, che pochi anni fa nel giorno in cui si ricorda la più cruenta strage nazifascista in Italia, i 560 civili trucidati a Sant’Anna di Stazzema, decise di farsi immortalare presso il monumento delle foibe di Basovizza. Una scelta in linea con i tempi.
D’altra parte questo 25 aprile perfino il Mattarella, virtuoso del fritto misto, ha accostato i valori della Resistenza a quelli degli sgherri ucronazisti e questi ultimi alle strofe di Bella Ciao. L’ha seguito a ruota Fico, terza carica dello Stato e pollone eminente della farsesca “rivoluzione” pentastellata, il quale lo stesso giorno sceglie Marzabotto per informarci di dove va il suo pensiero: va agli ucraini aggrediti, ma quelli che difendono il regime di Kiev e non certo le genti del Donbass, subito aggiungendo una chicca sul coraggio dell’Italia che invia armi ai figliocci del collaborazionista e genocida Bandera. Sulla stessa lunghezza d’onda è la senatrice Segre, che se ci può ancora parlare del terribile anno e mezzo passato ad Auschwitz, pare fatichi a ricordare chi ce l’ha condotta.
A questo punto le bandiere ucraine in piazza il 25 aprile diventano un ornamento d’obbligo, così da essere nuovamente presenti qua e là il Primo Maggio, specie dalle parti dei sindacati padronali e dei bellicisti del Pd, con contorno di dichiarazioni cerchiobottiste dell’Anpi e di striscioni dei gruppuscoli di vario anarchismo, sinistrati e rifondaroli, tutti maestri di schizzinosa equidistanza tra i nazisti e chi oggi li sta combattendo, dopo aver sfoggiato sdegnosa imparzialità tra il governo siriano ed i tagliagole islamisti sul libro paga dell’impero d’Occidente.
Ma tutti sempre per la pace, ovviamente, anche al concertone romano che ritualmente regala alla gioventù note innocue e festose per evitare che usino la piazza per rivendicare pericolosi diritti, appuntamento quest’anno presentato da un’esperta nel fiutare l’aria che tira in rigorosa maglietta dai colori cari a Zelensky.
Però non è la pace ciò a cui costoro inneggiano, bensì ad un armistizio, al congelamento di una situazione che disturba le loro false coscienze. Perchè la fine delle ostilità in questo momento significherebbe lasciare al regime nazi-atlantista di Kiev i territori che ancora controlla, insieme alla possibilità di riprendere a cannoneggiare i civili nel Donbass, cosa andata avanti per otto anni senza mai turbare il sonno dei pacifondai nostrani. E consentirebbe di continuare ad opprimere la dissidenza interna mettendo fuori legge i partiti sgraditi alle milizie dell’Azov, far sparire giornalisti, politici e intellettuali non allineati, dar vita a pestaggi e pubbliche gogne. Magari anche bruciare vivi gli oppositori, come accadde il 2 maggio di otto anni fa a Odessa.
Forse per molti questa è condizione accettabile e sufficiente per arrotolare di nuovo le bandiere della pace, nell’attesa che il nostro impero vorace e bellicista punti di nuovo il dito verso una guerra che siamo chiamati ad esecrare perché non la sta vincendo.

Pessima strategia o solo lungimiranza?

Chi ha compreso la strategia russa in Ucraina alzi la mano. Il fronte è stato fermo per settimane, mentre le puntate russe in diversi settori a sud di Charkov venivano regolarmente bloccate, cosicché questa campagna militare nata come una galoppata s’è trasformata come nel 1914 in una guerra di trincea dove un’avanzata di pochi chilometri è roba da ricamarci un entusiastico bollettino. A differenza di allora e anche della guerra successiva, né da una parte né dall’altra vi sono reparti sufficienti per formare un fronte continuo, perciò quello che vediamo è perlopiù un conflitto tra pattuglie, dove un’avanzata appena significativa diventa rischiosa perché espone i fianchi ad un contrattacco.
Partendo da nord e quindi dal fronte di Kiev, non è molto chiaro il motivo per cui i russi abbiano deciso di abbandonare del tutto il territorio piuttosto vasto che avevano conquistato in prima battuta, corrispondente a buona parte degli oblast di Sumy, di Cernigov e della capitale. E’ sembrato ovvio che lo scopo fosse quello di concentrare le forze nella parte di Donbass non ancora liberata dopo aver constatato che forze già insufficienti erano state eccessivamente diluite, ma si possono opporre almeno tre obiezioni a tale scelta: intanto ciò permette anche agli ucraini di distogliere forze da quel settore per posizionarle dove serve. In secondo luogo un ritiro completo fino ai confini del 24 febbraio comporta comunque da parte russa la necessità di presidiare i confini per impedire eventuali penetrazioni nemiche. E terzo, se per disgrazia qualche plotone ucraino riuscisse a varcare ugualmente il confine, ciò non solo metterebbe a serio rischio gli abitanti dei villaggi russi limitrofi, ma avrebbe una certa risonanza mediatica certamente non favorevole a Mosca.
Sarebbe stato più logico mantenere al nord il territorio conquistato passando sulla difensiva invece di continuare a premere senza costrutto, cosa che avrebbe richiesto un minor numero di reparti e costretto gli ucraini a presidiare il settore, colpendo anche dall’aria eventuali controffensive in virtù dell’assoluta superiorità aerea. E la stessa cosa si potrebbe dire riguardo alla zona di Charkov, dove si nota da settimane un pericoloso avvicinamento dei reparti ucraini ai confini con l’oblast russo di Belgorod.
Un po’ più a sud, vi è stata una significativa avanzata russa oltre Izium con obiettivi territoriali non chiari che certamente non comprendono la ancora lontanissima Dnepropetrovsk (ribattezzata Dnipro dal regime di Kiev) e successivamente frenata per il solito motivo legato alla vulnerabilità sui fianchi. Passando quindi al saliente ucraino con vertice nelle località di Sievierodonestsk e Lisichansk, a quanto pare fortemente presidiate, è in atto da parte russa un tentativo di manovra a tenaglia la cui branca settentrionale ha raggiunto il villaggio di Bilohorovka mentre quella meridionale si appoggia a Popasna, ma un’occhiata alla mappa e il ritmo con cui sono stati finora condotti i tentativi di penetrazione sembra dirci che un completo accerchiamento delle forze ucraine è un obiettivo piuttosto ambizioso, almeno sul breve periodo e a meno che nelle prossime settimane la pressione russa non acquisti un vigore inedito. Tatticamente la manovra russa è ineccepibile ma occorrono forze consistenti per portarla a compimento.
Poco più a sud, è discutibile la scelta di permettere agli ucraini di rimanere a ridosso di Donetsk bersagliandone con facilità i quartieri residenziali con l’artiglieria. Certamente non si possono avere forze sufficienti per fare tutto, ma credo che questa avrebbe dovuto essere una priorità. E mentre in seguito alla provvidenziale conquista della centrale nucleare di Enerhodar, la più grande d’Europa, il fronte di Zaporozhe è diventato tra i meno attivi, lungo la costa del mar Nero l’offensiva russa di è fermata all’importante centro di Kherson dopo aver inutilmente provato a spingersi su Nikolajev, presso la foce del Bug meridionale, cosicché a tutt’oggi la conquista di Odessa, obiettivo cruciale che toglierebbe all’Ucraina lo sbocco al mare e permetterebbe un collegamento terrestre con la Transnistria, rimane un miraggio.
Quanto ai sotterranei dell’Azovstal di Mariupol, su cui certamente a breve potremo gustare qualche film propagandistico americano che ne farà la Stalingrado del “mondo libero”, non mancherebbero gli strumenti bellici per stanare in mezz’ora tutti quelli che vi si trovano, ma probabilmente lì sotto oltre ai nazistoidi asserragliati vi è anche qualcun altro che serve più da vivo che da morto, o magari le prove di quello che stavano combinando a livello di guerra batteriologia le avanguardie delle gloriose aziende farmaceutiche occidentali.
E’ possibile che nelle prossime settimane tutto cambi, che le difese ucraine cedano in qualche punto imponendo a Kiev ad una ritirata su vasta scala, ma per far ciò servirebbe una superiorità schiacciante in almeno un punto del lunghissimo fronte, accorgimento che rientra nell’Abc di ogni campagna militare e che tra l’altro era proprio ciò che i comandanti sovietici si assicuravano prima di dar luogo alle potenti offensive contro gli invasori tedeschi negli ultimi due anni di guerra. E dire che di fronte non avevano esattamente l’esercito del papa.
Perciò la condotta bellica che vediamo oggi applicata, la rinuncia ad impiegare un quantitativo sufficiente di unità tale da limitare nel tempo l’intera campagna, potrebbe avere moventi politici più che militari, anche se rimane arduo capire quali siano. Se l’obiettivo è quello di contenere le perdite, militari e civili, certamente ciò non lo si ottiene prolungando per mesi il conflitto e legandolo ad una serie infinita di scaramucce. Una guerra di movimento è sempre meno onerosa in termini di vite umane rispetto ad una guerra di posizione. Analogamente è difficile pensare a ragioni economiche, considerando il costo dei missili e degli strumenti aerei necessari a martellare le retrovie e la struttura logistica ucraina su un territorio così vasto.
Ma esiste forse un’altra spiegazione. Pur restando nel campo del sospetto, è possibile che una volta compresa la difficoltà di procedere ad un’occupazione veloce e totale dell’Ucraina, Mosca punti allo smembramento del paese e ciò grazie anche agli appetiti polacchi, cui si aggiungerebbero quelli slovacchi, ungheresi e romeni. Una possibilità non così remota, se pensiamo che già da qualche settimana è in progetto l’ingresso di reparti polacchi nella parte occidentale del paese, per ora circa diecimila uomini già armati dell’avvenente denominazione di “contingente di pace”. Sarebbe una buona soluzione per tutti, eviterebbe il rischio di creare un nuovo Afghanistan in cui i russi resterebbero impantanati per decenni dal momento che essi prenderebbero possesso delle sole ma vaste zone russofone e in più appagherebbe con sostanziosi guadagni territoriali l’avidità degli altri paesi confinanti. Magari resterebbe qualcosa anche per gli sfortunati successori di Zelensky, un paesello convergente su Kiev lontano dal mare e dai gasdotti, dove possano sfilare con le foto di Bandera e di altri amati collaborazionisti locali senza più nuocere agli altri.
Ma soprattutto ciò sarebbe un brutto colpo per i disegni americani di annichilimento della Russia ed anzi non è escluso che un tale esito possa favorire una distensione dei rapporti tra Mosca ed i paesi dell’Europa orientale. Sarebbe dopotutto una buona alternativa ad una guerra mondiale.

La guerra dei servi

Draghi viene convocato a Washington e insignito dell’onorificenza che si dà ai buoni valletti imperiali e c’è da domandarsi quali altri impegni avrà preso, quale nuovo cappio avrà stretto al collo del paese che governa senza alcun mandato popolare, pur nella certezza che sarà riuscito a combinare qualche nuova infamia con cui arricchire il suo curriculum. Ma trovandoci ormai sull’orlo dell’Armageddon tra il mondo oligarchico e quello eterogeneo che intende sfuggirgli, il crisma ricevuto presso l’ombelico del bellicismo ad oltranza non può che avere a che fare con l’assicurazione di un coinvolgimento ancora maggiore nella guerra in atto.
Non tutti i governi europei sono altrettanto servili e in particolare non lo sono quelli che ancora contano qualcosa, Francia e Germania, entrambe con un solo piede posato sulla mina dell’obbedienza. Ma in questi paesi esiste un confronto tra forze politiche dalle posizioni differenti, esistono istituzioni che bene o male comprendono che cosa significa una guerra contro la Russia non solo in termini di approvvigionamenti energetici ma anche di rischio deflagrazione bellica incontrollata. Ci sono inoltre sindacati che non fanno nulla di eccezionale ma il loro mestiere almeno quello sì, che possono indire scioperi e portare in piazza moltitudini, ci sono moltitudini che scioperano quando è doveroso farlo e il cui voto poi in qualche modo influenza le scelte dei parlamenti e degli esecutivi.
In Italia queste cose non le abbiamo e quasi inaspettatamente siamo oggi costretti a domandarci se abbiamo mai contato qualcosa. Noi, il popolo voglio dire, quello a cui appartiene la sovranità, termine non per nulla sufficientemente vago. Perchè poi scopriamo che un ceto dirigente di ricattabili inetti può portarci in guerra come e quando vuole. Da sempre.
Come nel 1915, un Salandra qualsiasi in combutta con i poteri padronali può far firmare un trattato segreto che ci getta in una guerra che nessuno sano di mente vorrebbe. Come nel 1940, quando il ruolo legislativo del parlamento è ormai evaporato, in maniera piuttosto simile a quanto sta accadendo oggi. Ma si può dire la stessa cosa per ogni avventura coloniale e poi per le varie partecipazioni a conflitti nella scia dei padroni americani o europei in palese violazione della Costituzione e ciò indipendentemente dalla sfumatura politica del governo. Abbiamo militato come foederati ausiliari allo stesso modo al tempo di D’Alema o di Berlusconi, bombardando e uccidendo in base agli ordini, perché quando andiamo a votare non decidiamo una linea politica bensì il colore della livrea dei servi che la devono espletare.
Il regime in cui per ignavia siamo precipitati sta cercando oggi di instillare dall’alto l’odio verso un nemico. I suoi alfieri sanno benissimo che la propaganda può non raggiungere gli scopi, ma ciò ha importanza relativa. Non hanno bisogno del nostro consenso ma della nostra rassegnazione. Il loro scopo è mostrarsi ligi esecutori allo sguardo del padrone, il quale ne appoggerà le meschine ambizioni in termini di carriera, posizione e prestigio.
Tutti o quasi capiscono benissimo che ci viene ordinato di odiare i russi ed il loro governo, così come ci viene richiesto di esporre il braccio all’inoculazione di oscure sostanze, da parte di istituzioni occupate da un manipolo di figuri senza coscienza.
Tutti o quasi capiscono che a costoro nulla importa del benessere collettivo o del disastro in cui ci stanno precipitando ed il loro tentativo di deviare lo sdegno popolare verso un paese che nulla ci ha mai riservato se non stima ed affetto viene perlopiù accolto con rassegnato fastidio. Né sembra avere miglior fortuna l’apostolato bellicista dei cacciaballe addetti ai notiziari o dei conduttori televisivi strapagati per esibire la loro ottusa faziosità.
La macchina della propaganda ha una sua inerzia e in questo caso si muove da tempo nei territori del ridicolo senza che qualcuno provi a fermarla nel timore di finire nella lista dei disertori o peggio ancora in quella dei conniventi col nemico. Se perfino una fida vestale della narrazione ufficiale come Berlinguer viene oscurata su disposizione governativa per aver dato il microfono ad un sociologo che canta timidamente fuori dal coro, significa che siamo al parossismo e prossimi ai roghi dei libri in piazza.
Anche se qualcosa comincia a muoversi in senso opposto, forse solo per fisiologica reazione all’ingerimento di troppa irrazionalità tutta in una volta, come un rimbalzo del gatto morto, mediaticamente si continuerà a censurare posizioni contrarie o ad isolarle in farlocchi dibattiti televisivi sottoponendole in perfetto stile Azov al linciaggio di una mezza dozzina di emeriti lacché.
In una recente puntata del programma diMartedì uno spontaneo applauso del pubblico per Fulvio Grimaldi, colpevole di aver detto cose del tutto ovvie e risapute sul martirio del Donbass per mano nazi-atlantista, è stato interrotto dallo pseudo moderatore poiché a suo avviso nelle parole di quel veterano del giornalismo non vi era nulla di condivisibile. Ma siamo ormai assuefatti ad ogni tipo di enormità e sconvenienza, in particolare sul piccolo schermo, compreso il fatto che un conduttore intaschi centodiecimila euro al mese (e avete letto bene) per mostrare sfacciatamente di militare come censore nel battaglione del pensiero unico.
Chi ha abbastanza anni sul groppone da ricordare il volto serafico di Jader Jacobelli nella Tribuna politica del giovedì, capirà bene che ora ci troviamo su un altro pianeta. Quello su cui l’appuntamento elettorale non impressiona le istituzioni più di quanto possa fare un flash mob e dove le diatribe intorno ad ipotetiche alleanze politico-elettorali finalizzate alla costruzione di un’alternativa appaiono al contempo tardive e insufficienti.
Il nostro sistema plutocratico si sta voltando sul lato dispotico e si fa regime ad un tempo liberista e illiberale, pressoché immune ad eventuali ritocchi elettorali. Se è la guerra ciò a cui intende costringerci, scoprirà presto che qualunque persona con la testa sul collo comprende bene, e non da oggi, da quale parte si trova il nemico.

Un 25 aprile di regime

I missili lanciati sulla folla dalle milizie neonaziste ucraine fanno rima con i gas letali usati qualche anno fa dai tagliagole islamisti nelle città siriane ed entrambe le cose sono evidentemente frutto del medesimo tentativo di demonizzare il nemico agli occhi di un’opinione pubblica che ormai nei regimi occidentali ha perduto la residua facoltà di influenzare le scelte politiche ed è soggetta al ‘pilota automatico’ della dittatura neoliberale. Sembrerebbe una contraddizione ma non lo è affatto perché da questi popoli si pretende obbedienza, non solo nell’indossare museruole a comando e fare da serbatoio umano per redditizi cocktail biologici, ma anche nel rassegnarsi ad un’esistenza di privazioni mentre vengono progressivamente derubati d’ogni bene e quotidianamente soggetti ad un lavacro di menzogne.
La contraddizione invece sussiste nel fatto che in maggioranza non si crede affatto a ciò che viene propinato dai media di regime e tuttavia si vive il bombardamento mediatico come una sorta di evento naturale contro cui non vale la pena opporsi. E che la feroce propaganda anti-russa non stia ottenendo il risultato sperato da chi paga ed è pagato per diffonderla, lo dicono i sondaggi, secondo cui la responsabilità del conflitto in corso è degli Usa e/o dell’Ucraina per il 52,9% degli intervistati.
Un dato analogo (46,9%) si ha tra coloro che vorrebbero rinunciare a ulteriori sanzioni contro la Russia, ma ancora più rilevante (53,8%) il numero di coloro che ritengono giustificata totalmente o anche solo limitatamente al Donbass l’offensiva russa. Quanto alla possibilità di adesione dell’Ucraina alla Nato, le risposte fortemente negative raggiungono il 54,3% (i dati qui riportati sono presi da TermometroPolitico, progetto d’indagine non certo imputabile di vicinanza a Mosca).
Se un apparato mediatico che dispone di tutti i canali televisivi, di tutti i giornali e degli indirizzi sulle prime schermate dei motori di ricerca non convince nemmeno la metà dei destinatari, il suo problema non deriva solo da tecniche di persuasione rozze e infantili ma evidenzia lo scarso livello di credibilità delle istituzioni politiche. C’è da aspettarsi che tale fenomeno si amplificherà man mano che sul paese si abbatteranno gli effetti delle scelte irresponsabili e servili di governi privi di avallo elettorale, esecutori di un’agenda preparata nei club transnazionali dell’affarismo.
Se la tv non produce più dibattiti ma soltanto cori liturgici in cui ogni opinione che non resta nei binari russofobici viene bandita o ridicolizzata, una quota di pubblico dopo un po’ se ne accorge. Se a ciò si aggiungono le iperboliche stupidaggini quali ad esempio il divieto di parlare di Dostoevsky, di suonare Tchaikovsky o l’esclusione degli atleti russi dalle gare sportive, tutti avvertono che ci si trova ormai oltre i confini del ridicolo. Se infine ciò viene condito da panzane quotidiane intorno ai russi che stuprano e uccidono tutti quelli che capitano a tiro e si sparano i missili addosso per incolpare gli ucraini, ecco che tutto lo sporco lavorio dei nostri mezzibusti e imbrattacarte di regime può almeno in parte ottenere l’effetto opposto.
Evidentemente i banditori con l’elmetto Nato credono di poter manipolare la percezione collettiva della realtà e di suggestionare le masse annunciando che Putin fa il bagno nel sangue di cervo, quasi come se stessero guardando l’oceano dall’altro lato e avessero a che fare con un pubblico che crede ai santoni televisivi e ai miracoli in diretta.
Eppure sappiamo bene che diffidare delle fandonie non ci libera automaticamente da chi le racconta e che la strategia che sta dietro a tutto ciò non si basa solo sulla capacità di persuasione ma soprattutto sul soffocamento di ogni voce dissidente, come hanno dimostrato ampiamente questi anni di terrorismo a sfondo sanitario e come ad esempio e nel suo piccolo evidenzia oggi l’innocua parabola televisiva del prof. Orsini, messo in croce dai giannizzeri della narrazione ufficiale nonostante ad ogni apparizione reciti il preambolo senza il quale non si accede al piccolo schermo e cioè che lui condanna l’offensiva russa e sta dalla parte dei nazisti, pardon volevo dire dell’Ucraina. Ma ha la colpa di aggiungere che la guerra, se così si può definire il massacro di civili all’interno di un progetto genocida, avviene laggiù da otto anni proprio per mano ucraina e che nessuno qui ha mai voluto accorgersene.
Eppure vediamo che lo scetticismo verso i pensierini del minculpop naziatlantista non si traduce in voci alternative se non grazie a piccole oasi di resistenza e di ricerca della verità, in un deserto nato soprattutto dal collaborazionismo di quelle forze politiche e sindacali che hanno reso imbarazzante e improprio in qualsiasi contesto l’uso del termine Sinistra. E non mi riferisco ovviamente al Pd ed ai suoi cascami parlamentari, che fatico a distinguere dai mercenari dell’Azov, bensì agli sciroccati che domani mattina, 25 aprile, andranno a portare i fiorellini sulle lapidi dei partigiani e nel contempo faranno le marce armati di bandiere arlecchine per chiedere che si faccia subito la pace con i nazisti. Ma non prima di essersi prestati al gioco di chi snatura la ricorrenza agganciandola ad una serie di altri eventi e situazioni che non hanno nulla a che vedere con la Liberazione dal giogo nazifascista. Cosicché mi è già capitato in questo giorno di udire concioni sui curdi del Rojava, sul popolo Saharawi, sul genocidio armeno e finanche sui Mapuche, mentre in piazza sventolava la bandiera palestinese e un poco più in là pure quella israeliana, in mancanza di quella della brigata ebraica. E’ chiaro che se il 25 aprile si festeggia di tutto è come se non si festeggiasse più nulla e soprattutto nella testa di chi è abbastanza giovane da aver frequentato una scuola ormai privata dell’insegnamento della storia, si perde completamente il senso della ricorrenza. Un po’ come se l’8 marzo si manifestasse per i diritti della donna ma anche contro le barriere architettoniche e per i diritti degli uomini separati. Quest’anno poi spunterà anche qualche bandiera ucraina in mezzo ai cori del ‘BellaCiao’ che ormai intonano anche gli Yanomami nella foresta pluviale, perché l’importante per costoro è mostrare il proprio amore per la pace, qualunque significato abbia tale termine nelle loro teste e peccato che sono nati troppo tardi per proporre una scampagnata con Primo Levi e Kappler.
Bene, l’avranno costoro la loro pace e se quella finora patita non gli basta, il regime già ne sta preparando una nuova versione, anche grazie ai centomila ucraini giunti finora in Italia, certamente non tutti tatuati con la svastica ma quanto basta per iniziative del tipo già constatato nei primissimi giorni di accoglienza, attraverso un assalto incendiario all’ambasciata bielorussa, l’intimidazione a Senigallia contro la presentazione del libro di Sara Reginella sul martirio del Donbass, l’aggressione ad una negoziante russa a Torino e ultimo in ordine di tempo il pestaggio di un’attrice, anche lei russa, nipote del poeta Brodskj.
Possiamo essere certi che questa nuova manovalanza squadrista, assi utile a chi va perfezionando il nostro ingresso in un’epoca di rinunce e massima indigenza, potrà tranquillamente organizzarsi senza essere infastidita dai gendarmi di uno Stato che in fondo non presenta significative dissonanze dalla banda di criminali a cui per superiori disposizioni sta servilmente inviando armi e quattrini.
Proprio vero che anche questa volta a svegliarci e imporci di agire organizzati non sarà la nostra capacità di leggere gli eventi bensì le bastonate del regime. Ché se così non fosse non si piomberebbe nell’abisso e non vi sarebbe poi un 25 aprile per ricordarci di quando ne siamo usciti.

Ucraina: generali alla sbarra

Durante una guerra nessuna dichiarazione ufficiale può valere quanto la mappa delle operazioni e questa in Ucraina sta mostrando un’imprevista situazione di stallo che se non muterà a breve non potrà che avere conseguenze politiche di rilievo.
Non è più epoca di guerre-lampo perché il costo economico dei grossi eserciti in manovra risulta proibitivo. Perdere un aviogetto o un plotone di carri significa bruciare miliardi, sacrificare sul campo più di qualche migliaio di soldati significa per i governi bruciare il proprio consenso. Tuttavia, che duecentomila militari siano pochini per invadere un paese più grande della Francia è del tutto evidente anche per chi non ha la giacca appesantita da medaglie e mostrine, a meno che non si proceda sul velluto tra ali di folla festante come unico intralcio all’avanzata.
Non sta andando così ma la cosa che più appare dissonante rispetto alle previsioni iniziali è che gli ucraini stanno tenendo un fronte lungo millecinquecento km che almeno per ora non presenta smagliature vistose in nessun settore né consente rapide penetrazioni alle colonne russe. Naturalmente occorrono molti uomini per fare ciò, ben più di quelli ancora a disposizione nell’esercito regolare di Kiev, il che dimostra che molti dei locali sono stati arruolati allo scopo. Ed è difficile pensare che l’abbiano fatto solo perché costretti, poiché in quel caso vi sarebbero diserzioni di massa e il fronte cederebbe subito almeno in qualche punto. Ma non è nemmeno pensabile che reclute al primo rapporto con le armi possano reggere l’urto di reparti composti da personale addestrato, quindi c’è dell’altro che va forse cercato nelle teste degli strateghi russi, probabilmente soggetti al grave peccato di sottovalutazione dei problemi cui si andava incontro.
Il primo elemento che saltava all’occhio fin dall’inizio della campagna era la scelta di non investire direttamente i centri urbani lungo il percorso, dato che ciò avrebbe portato a scontri per le strade, grosse perdite tra militari e civili nonché distruzione delle infrastrutture cittadine. E tutto lascia pensare che Mosca non voglia un’Ucraina in cenere bensì un paese che possa rapidamente guarire le sue ferite sotto un governo amico. Le località in cui erano presenti postazioni nemiche venivano invece aggirate, magari confidando che i difensori avrebbero perso le speranze e si sarebbero arresi. In qualche caso almeno all’inizio è andata proprio così, ma nei centri appena più grandi non è andata così affatto, anche perché in una città c’è sempre quanto basta per trincerarsi e resistere per diverse settimane, magari saccheggiando i caseggiati e privando i civili delle loro scorte.
Va da sé che per operare un accerchiamento occorre presidiare tutte le vie d’uscita dei difensori ed i reparti a ciò preposti devono essere sottratti a quelli avanzanti. Va bene farlo in un paio di circostanze, ma alla lunga il numero di uomini che si devono lasciare nelle retrovie comincia ad incidere sul corso delle operazioni. A tutt’oggi, sul lato nord del fronte, Cernigov, Shostka, Konotop, Sumy ed un’altra mezza dozzina di centri sono sotto assedio, cosa che comporta il dislocamento di numerose unità russe inevitabilmente dedotte dalle linee di avanzata.
Che gli ucraini avrebbero scelto di difendere i capisaldi urbani lo si poteva immaginare, anzi non vedo che altro avrebbero potuto fare, dato che non potevano certo affrontare i russi in campo aperto per giunta esponendosi alle incursioni aeree. Per cui la tattica di aggiramento continuo delle posizioni nemiche incontra in questi giorni i suoi limiti, il che lascia presupporre nei prossimi giorni un mutamento di strategia da parte dei comandi russi e probabilmente l’afflusso di altre unità.
Comunque la si giri, dal punto di vista mediatico chi ha progettato l’offensiva non passerà certo alla storia come brillante stratega ed anche la scelta iniziale di investire l’Ucraina lungo troppi assi di penetrazione in contemporanea lascia pensare che presso i comandi regnasse un ottimismo eccessivo.
Charkov è uno dei due maggiori obiettivi e si trova a soli 40km dal confine. Se non è stata occupata né aggirata fin dai primissimi giorni è perché le forze russe dislocate in quel settore erano del tutto insufficienti e se lo erano è perché il servizio informazioni non aveva un quadro chiaro della situazione e tutto ciò non certo nell’epoca degli esploratori a cavallo ma in quella dei satelliti e dei droni.
L’altro obiettivo vitale è naturalmente Kiev, un po’ più distante ma si fa per dire, solo 90 km dal confine bielorusso. Anche in questo caso l’avanzata si è trasformata in una guerra di posizione lungo i sobborghi settentrionali e nulla lascia pensare che le cose possano mutare in breve tempo.
Va un po’ meglio al sud, ma un’occhiata alla mappa evidenzia che i russi non stanno affatto concentrando gli sforzi contro un obiettivo alla volta, ma anzi premono lungo quattro direttrici tra l’altro piuttosto divergenti, verso Nikolaiev, Voznesensk, Krivoj Rog e Nikopol. In più cercano di raggiungere Zaporozhe sul lato est del Dnepr nonché di liberare Mariupol, tuttora nelle mani delle bande naziste del battaglione (ora reggimento) Azov.
A rendere più fosco il quadro ci sono i rinforzi di armi ed equipaggiamento che stanno arrivando dai vassalli Nato, nonché volontari euro-nazistoidi e mercenari fatti affluire un po’ da ovunque compreso il Medioriente. Non è detto che questi apporti siano in grado di influenzare il corso degli eventi, ma di certo se l’avanzata russa fosse stata anche solo vagamente simile a ciò che ci si attendeva, nessuno di costoro avrebbe ritenuto salutare un’escursione sul posto.
L’idea di aggirare i centri popolosi invece di investirli non è certo una novità ed è parte del bagaglio tattico nato con la guerra di movimento. Anche le colonne meccanizzate nell’ultimo conflitto mondiale avevano l’ordine di non impegnarsi in sanguinosi scontri cittadini, però le sopraggiungenti fanterie all’occorrenza lo facevano. L’analoga scelta del comando russo procede dalla necessità di minimizzare le perdite tra i soldati ma anche di evitare vittime civili, come dimostra la rinuncia a bombardare le aree residenziali in cui invece si arroccano senza alcuno scrupolo i battaglioni ucraini. D’altra parte questa è gente che per otto anni ha fatto il tiro al bersaglio sulle case e sulle scuole nei villaggi del Donbass, quindi del tutto priva di attributi equiparabili all’umanità ed alla coscienza.
Qui entra forse in gioco un altro fattore, cioè l’impatto mediatico del conflitto, il tentativo da parte russa di evitare situazioni che possano essere sfruttate dalla propaganda occidentale per giustificare le proprie scelte anche in fatto di sanzioni e rappresaglie economiche. Accorgimento che però sappiamo essere superfluo, visto che anche se questa fosse la prima guerra al mondo senza vittime innocenti, ci racconterebbero che Putin succhia il sangue ai neonati sapendo di essere creduti da gran parte dell’ingenua platea. Quanto ai contraccolpi commerciali, il punto più basso nelle relazioni tra la Russia ed i reggicoda atlantisti sta per essere raggiunto indipendentemente da ciò che avviene sui campi di battaglia.
Sono congiunture che invece non preoccupano i comandi Nato, che difatti possono spargere agenti al fosforo sulla popolazione irakena, defolianti su quella indocinese o sostanze radioattive su quella jugoslava senza che i pacifisti di casa nostra se ne adombrino. Anzi, abbiamo perfino avuto un ministro della guerra, oggi rieletto garante di qualcosa che non ricordo, che pubblicamente dubitò che la radioattività da uranio americano nuocesse alla salute.
Dunque è sconsolante ammetterlo ma non si può fare una guerra preoccupandosi di ciò che penserà il nemico. La Russia porterà in qualche modo a termine la sua “guerra d’inverno”, come quella che l’Urss iniziò contro la Finlandia alla fine del 1939, vincendo ma deludendo e provocando una diffusa quanto pericolosa sottovalutazione delle sue potenzialità reali. Allora, come credo anche oggi, la guerra mondiale era già iniziata.

Il putinismo alla prova del fuoco

A Mosca la Duma ha votato a grande maggioranza il riconoscimento ufficiale delle repubbliche di Donetsk e Luhansk nel Donbass su una mozione presentata dal partito comunista. Il presidente sta ancora valutando il da farsi e se la richiesta non venisse accolta in tempi ragionevoli, si creerebbe una prima evidente frizione tra Putin e le aspettative del parlamento russo, compresi i deputati del suo partito.
A Washington devono aver intuito che l’alta tensione non fa bene alla salute politica di Putin e così non cessano di farne uso: movimenti di truppe ucraine già si registrano ai confini con la Transnistria, una fetta di territorio a est della Moldavia che da otto anni chiede di poter aderire alla Federazione russa. Invaderla equivarrebbe ad una provocazione senza precedenti nei confronti di Mosca, che difficilmente potrebbe limitarsi a reagire solo per via diplomatica.
Evidentemente una strategia portata avanti troppo a lungo permette all’avversario di trovarne i punti deboli e quella putiniana ha già sul groppone parecchi anni, essendo venuta chiaramente alla luce il giorno in cui l’Ucraina subì quel mutamento violento di regime che fu gestito telefonicamente da Obama in collegamento con Kiev, con dinamiche analoghe a quelle usate da Goering al tempo dell’Anschluss dell’Austria al Reich nazista.
Non so fino a che punto gli eventi di Maidan colsero alla sprovvista il governo russo, ma resta il fatto che questo agì solo a cose fatte premurandosi di difendere la Crimea dalle squadracce naziste che avevano già preso il controllo dei maggiori centri del paese. Una bella mossa senz’altro, con cui Mosca acquisiva importanti basi sul mar Nero, che in caso contrario si sarebbe tramutato quasi del tutto un lago interno della Nato. Tuttavia un vasto territorio grande quasi due volte l’Italia, fino a quel momento retto da governi altalenanti ma che comunque garantivano al paese una certa indipendenza, diventò un nemico alle porte con cui la Russia confina per oltre millecinquecento km. Se per ipotesi le forze occidentali oggi schierassero missili dalle parti di Charkov, questi potrebbero raggiungere la capitale russa in pochi minuti e non ci sarebbe nemmeno il tempo di avvertire i vertici politici. Naturale che per Mosca si era venuta a creare da quel momento una situazione estremamente preoccupante, considerando anche il fatto che quattro segmenti dei maggiori gasdotti diretti in Europa passano in territorio ucraino.
L’anno successivo Putin si decise ad intervenire in Siria, unico alleato mediterraneo affidabile, proprio mentre le cose per il governo di Damasco si stavano mettendo male. Anche questo può essere annoverato tra i successi sotto l’aspetto militare, avendo oltretutto colto di sorpresa i leader occidentali. In breve tempo una buona parte del paese fu ripulita dalle presenze jihadiste finanziate ed armate dagli occidentali e dai loro sodali, ma non in modo abbastanza risoluto da impedire agli americani di installarsi nelle aree confinarie del paese, chiudendo tra l’altro gli accesi siriani verso l’Irak e facendo spudoratamente man bassa delle risorse petrolifere locali. Assad mantenne il controllo delle maggiori città e i russi quello delle loro basi aeronavali, ma il nemico si accaparrò di fatto ciò che della Siria gli serviva, cioè la sua fetta orientale.
Inoltre, in virtù del fatto che sembrava possibile prendere a schiaffi gli interessi di Mosca senza patirne conseguenze, si erano mossi dal nord perfino i turchi, mentre dalla parte opposta gli israeliani davano inizio al rito dei raid aerei su obiettivi siriani senza che le batterie missilistiche russe osassero reagire né allora né in seguito. Ciò mentre un aereo russo veniva abbattuto al confine settentrionale siriano e l’ambasciatore russo ad Ankara finiva ucciso da un poliziotto turco, opportunamente eliminato dai suoi colleghi nei minuti successivi. Insomma un periodaccio, reso ancora più drammatico dal fatto che ogni tanto il presidente americano di turno, in cerca di audience e consensi, portava la flotta davanti alle coste siriane e ordinava il lancio di qualche decina di missili che finivano quasi sempre fuori rotta ma dimostravano che alla Nato è concesso ogni genere di abuso contro gli alleati di Mosca.
Sullo sfondo di tali eventi continuava quasi senza sosta il tentativo di genocidio degli abitanti del Donbass da parte dei reparti ucraini e in particolare delle milizie naziste, che nel loro paese godono di una certa libertà d’azione, un po’ come gli eserciti mercenari nelle epoche passate. Il tutto era ed è infine condito della serie continua di sanzioni economiche contro l’economia russa ed i suoi maggiori esponenti.
La politica estera di Putin non ha mai subito sostanziali modifiche e al di là delle letture agiografiche o demonizzanti che ne vengono offerte, si può dire che continua a basarsi sull’azione di contenimento dell’aggressività anglosassone, con risultati complessivamente non proprio eccellenti, a parte la perizia nello spegnere gli incendi altrui ma lasciando loro la scatola dei cerini.
Non è affatto chiaro ciò che Putin spera di ottenere a questo punto. Non essendo uno sprovveduto, capisce bene che la controparte non è in cerca di alcun accomodamento bensì punta all’annientamento della Russia come premessa a quel mondo unipolare che alcuni incauti consideravano la meta ultima della storia sul finire del secolo scorso. Forse immagina che prima o poi l’Occidente, a forza di tirar pugni all’acqua, comprenderà che l’arroganza è assai meno vantaggiosa rispetto ad una sana cooperazione. Oppure ritiene che Usa ed annessi reggicoda stiano semplicemente reagendo con furia belluina alla vista del proprio tramonto e ha deciso di sedersi a pazientare sulla riva del fiume. O ancora, più banalmente, affronta le sfide man mano che queste arrivano, ma in assenza di uno schema preciso sul lungo periodo, a parte la volontà di evitare a tutti i costi un’escalation incontrollabile.
Sta di fatto che se qualcuno cerca la rissa, è ben difficile evitarla. Si possono allontanare le divisioni dal confine ucraino, si può rinunciare a riconoscere le repubbliche libere del Donbass martoriate dal governo nazistoide di Kiev, ci si può astenere dall’intervenire militarmente per proteggere i suoi abitanti (molti dei quali oggi con nazionalità russa) dal genocidio in corso, ma non si arriverà mai ad un punto in cui la controparte si riterrà appagata.
L’idea di far sfollare in territorio russo la popolazione civile e in particolare i bambini, costituisce oggi una risposta di grande umanità contrapposta alla barbarie che anima le azioni del blocco occidentale, ma è sicuro che tale mossa non influirà sul prosieguo delle sanzioni, non frenerà gli appetiti territoriali della Nato e nemmeno aprirà gli occhi ai popoli europei, soggetti ad una propaganda sempre più menzognera dalla quale non sembrano poi molto infastiditi, dovendo più che altro occuparsi di quante dosi di veleno occorrono per poter sbarcare il lunario.
E allora, ci si chiede, che altro potrebbe fare Putin? Non vorrete mica che si metta a rispondere pan per focaccia col rischio che il mondo precipiti nell’apocalisse, destino sicuro se al suo posto ci fosse un rimbambito ricattato come il suo omologo d’oltreoceano. Dopotutto è una fortuna se almeno da una parte della barricata vige un certo grado di coscienza e di buon senso.
Tuttavia deve esistere e dev’essere trovato lo spazio per agire evitando sia i gesti sconsiderati che l’umiliazione di un costante quanto inutile sfoggio di disponibilità. A Washington non si cerca il casus belli né si pensa di poter affrontare direttamente le forze russe, né in Ucraina né altrove. Ma si ritiene di poter isolare Mosca dal resto d’Europa spaventando i suoi possibili punti d’appoggio nelle relazioni politiche e commerciali. Si ritiene di poter colpire i suoi alleati così da evidenziare che l’amicizia con la Russia non è conveniente, è anzi rischiosa perchè non offre un riparo paragonabile all’ombrello americano.
Putin chiede giustamente all’Occidente un atteggiamento di rispetto verso il proprio paese, ma non può ignorare che soprattutto nei rapporti internazionali il rispetto lo si ottiene sul campo (anche non di battaglia) e non lo si può pretendere per principio. Poteva evitare di riconoscere il governo golpista ucraino otto anni fa, visto che ogni eventuale contraccolpo sulle forniture energetiche sarebbe pesato soprattutto sugli acquirenti. Avrebbe anche potuto liberare militarmente il Donbass invocando il disastro umanitario: non vi sarebbero state per la Russia conseguenze più pesanti di quelle che già subisce per via delle attuali pressioni sanzionatorie.
Più sottobanco, si potrebbe armare la resistenza delle popolazioni al confine siro-irakeno, rendendo quei luoghi poco salubri per i locali presidi a stelle e strisce. Si può minacciare di fornire a Hezbollah quanto basta per togliere il sonno al governo israeliano, se questo non cessa immediatamente gli attacchi aerei sulla Siria. Si possono colpire e rendere inutilizzabili le strade che permettono agli occupanti americani e ai loro valletti curdi di rubare il petrolio nel nord-est siriano.
Sono solo pochi esempi di una lista abbastanza lunga da poter godere dell’imbarazzo della scelta. Senza mai perdere di vista i limiti oltre i quali non conviene spingersi ma senza timore di parlare l’unica lingua che presso le cancellerie occidentali riescono a comprendere.

Giochi pericolosi in Ucraina

Quella che viene potrebbe essere l’ultima primavera di pace in Europa, o meglio di guerra non combattuta. Poi ce n’è da tempo un’altra che invece si sta combattendo con le sanzioni, con la stampa e le tv occidentali scatenate nella demonizzazione quotidiana del nemico, in un turbine menzognero dai toni esasperati che rende plausibile l’idea che si stia scivolando verso una tragedia analoga a quella di cui ormai pochi hanno memoria.
Noi viviamo in un paese che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, così come è stato scritto tanti anni fa sul documento fondante dei nostri valori, soprattutto se si tratta di aggressione contro altri popoli e nazioni. Tuttavia da almeno qualche decennio collezioniamo governi che agiscono al di fuori delle norme che la Repubblica si è data. In un breve ma incompleto elenco limitato alla politica estera si parte dalla rovinosa puntata sulle coste somale e si prosegue con i bombardamenti sulla Serbia e l’invio di militari a presidio di territori a questa sottratti, alla complicità nell’occupazione dell’Irak e dell’Afghanistan nella scia degli aggressori angloamericani nonché alla partecipazione diretta all’aggressione in puro stile colonialista della Libia.
Gli è che facciamo parte di una coalizione, la Nato, che fin dal suo apparire opera con spirito esattamente opposto a quanto è scritto nell’art.11 della costituzione italiana e che proprio pochi giorni fa in tv Massimo Giannini, direttore di uno degli indistinguibili fogli del gruppo Gedi, pensando forse di essere visto solo dai suoi lettori o comunque da una platea assuefatta alle panzane, ha definito come risposta obbligata al Patto di Varsavia d’epoca sovietica, nonostante quest’ultimo sia nato sei anni dopo.
‘Coalizione’ è una bella parola che fa subito pensare ad un’alleanza paritetica tra soggetti che perseguono obiettivi comuni, per cui va da sé che la Nato non rientra in tale definizione, essendo piuttosto uno strumento di conquista i cui governi aderenti hanno ampia libertà d’azione potendo scegliere se obbedire o cadere e in tal caso se cadere con le buone o con le cattive. Ma sto divagando. Ciò che conta è la musica del suonatore d’organetto e non certo le catene al collo delle sue scimmiette.
La sensazione di assistere ad episodi che possono sfociare in un vortice di reciproche ritorsioni incontrollabili è diventata una costante fin dai mandati presidenziali di Obama, quando il tedoforo dell’apocalisse avvicinò pericolosamente la sua fiaccola alla miccia posta al largo delle coste siriane, luogo d’incontro poco amichevole tra le flotte delle due maggiori potenze.
Negli ultimi ottant’anni nessuna delle due parti, per evidenti motivi, ha deliberatamente cercato un confronto militare diretto e ciò rafforza gli argomenti di chi ritiene che la follia trovi prima o poi davanti a sé un naturale limite invalicabile. Perchè poi a dirla tutta, nemmeno al Pentagono, santuario dell’anfizionia occidentale e fucina di quasi tutti i conflitti e le crisi internazionali, prendono molto sul serio un tale proposito. Se invece così fosse non mancherebbero certo le occasioni, ma soprattutto si punterebbe ad un primo colpo devastante sul territorio nemico senza preavviso e non ci sarebbe nemmeno bisogno di giustificare il proprio operato, dato che già un’ora dopo l’inizio delle ostilità nessuno avrebbe più molto tempo da dedicare all’analisi sulle rispettive responsabilità. E se poi per assurdo l’aggressore riuscisse nel suo intento, non gli mancherebbero i Giannini per raccontare l’unica versione dei fatti consentita.
Il nemico per i vertici americani è ovunque i governi non si piegano alle pretese dei poteri economici e ciò ha fatto riemergere anche nella percezione collettiva qualcosa di quella contrapposizione ideologica che molti ritenevano superata all’indomani del suicidio del socialismo sovietico. Ma se anche l’orizzonte dei circoli guerrafondai perennemente al potere negli Usa coincide con un disegno di dominio planetario, non sembra vi sia in tal senso una strategia dai tratti leggibili, bensì un costante quanto sregolato inseguimento di opportunità, che è poi la cifra stilistica di quel mondo finanziario che esprime i vertici politici e ne guida le decisioni.
Anche nel calderone ucraino non è chiaro cogliere i limiti del gioco d’azzardo americano e se esso ruota intorno al tentativo di costringere la Russia ad un intervento militare così da danneggiare pesantemente i rapporti commerciali tra questa ed i paesi Ue, soprattutto in relazione alle forniture di gas. Certo, come movente sta in piedi. Il problema è però che in uno scenario del genere non vi sarebbe nulla a contenere l’offensiva russa e le conseguenze non sarebbero limitate alla liberazione del Donbass ma provocherebbero quasi sicuramente il collasso del regime ucraino, forse addirittura una frantumazione del paese e la perdita di ogni suo affaccio sul mar Nero. Per Mosca sarebbe una vittoria indiscutibile sul piano geopolitico ed anche i rapporti con la Turchia e con i paesi dell’Europa orientale ne sarebbero influenzati in senso non favorevole alla Nato. L’unico elemento che potrebbe scongiurare tutto ciò sarebbe la minaccia di un intervento diretto della Nato, ma ciò comporterebbe un rischio inaccettabile anche per le teste più calde che si aggirano nella CasaBianca.
In una recente e illuminante dichiarazione Biden ha affermato che se vi sarà un conflitto tra Ucraina e Russia, quest’ultima dovrà subire ritorsioni pesanti in ambito economico e che “in un modo o nell’altro” il gasdotto NorthStream2 verrà reso inoperativo. Il modo lo si può immaginare, nonché il fatto che sarebbe interessato anche lo Stream1 che corre parallelo. Quel che riesce difficile immaginare è che la Germania accetti tale effetto collaterale, anche se ha oggi un governo più rosa-verde e quindi un po’ più scimmietta di prima.
Però a Kiev avranno certo notato che Biden non ha fatto alcun accenno all’evenienza di un intervento militare americano nemmeno in forma indiretta e ciò significa che in caso di problemi seri l’Ucraina dovrà cavarsela più o meno da sola. Tant’è che perfino il suo presidente Zelenskyj, in controtendenza rispetto al ritornello propagandistico in voga, getta acqua sul fuoco ammettendo che non vi è un reale pericolo d’invasione russa. L’idea di assurgere a vittima sacrificale per gli interessi altrui non piace a nessuno, ma in fondo l’ex-comico di Krivoj Rog non ha il pieno controllo su quanto può accadere sulla linea del fronte e nemmeno influenza le decisioni di coloro cui deve il posto.
Infine, se anche vi fosse un serio deterioramento dei rapporti tra le scimmiette europee ed i fornitori russi di idrocarburi, non la si potrebbe certo considerare una situazione duratura. Le forniture Usa, possibili solo mediante trasporto navale, oltre ad avere un costo enormemente maggiore, rappresentano una goccia nel mare dei consumi europei e si porrebbe quindi la questione se rassegnarsi al collasso economico dell’intero continente oppure rivolgersi nuovamente a Gazprom. Non vi è dubbio che nemmeno il più succube governo europeo potrebbe sostenere a lungo le esiziali conseguenze della propria obbedienza. Quanto alla Russia, l’interruzione totale della vendita di idrocarburi ai paesi Ue provocherebbe una perdita secca di ottanta miliardi di dollari all’anno, più che gestibile sia ricorrendo ai 600 miliardi di riserve della banca centrale, sia almeno in parte trovando altri acquirenti o aumentando le esportazioni verso la Cina.
Non si può dire con certezza se la tensione attuale verrà riassorbita o se a forza di giocare con i fiammiferi nella polveriera succederà un guaio di quelli epocali, ma di certo non vi è amministrazione americana che non senta il bisogno di mostrare i muscoli in una qualche direzione, per motivi legati al consenso interno, per lavar via il ricordo di qualche sconfitta recente, ma soprattutto perché quel sistema si regge interamente su politiche di sopraffazione e rapina permesse dall’imponente apparato bellico e garantite da un debito iperbolico, tutte cose molto costose che la convivenza pacifica col resto del mondo non potrebbe mai permettersi.

Pipiripistan

Immagino che a breve, per mascherare l’assoluta inutilità del siero anticovid (nonché la sua nocività), lo uniranno ad altri sieri dall’inefficacia ormai manifesta, quelli antinfluenzali. Non so come potrebbero chiamare il nuovo improbabile farmaco, ma verrebbe quasi naturale assegnargli il nome dell’ad. di Pfizer, mr. Bourla.
Dopodiché cominceranno a spaccare i gemelli a tutti, cominciando dagli anziani e poi nel tempo giù giù fino alle scuole elementari, affinché si prenda appuntamento con la siringa una volta l’anno. Se qualcuno ci resta secco, vai poi a sapere se è per via di un prodotto o dell’altro, o della somma dei due, quand’anche si trovi un medico non genuflesso disposto ad ammettere una qualche correlazione.
Anzi, potrebbero benissimo ricorrere all’espediente tipico delle assicurazioni sanitarie americane: prima dell’inoculazione, nel corso di un’anamnesi-trabocchetto, si dovranno dichiarare tutti i guai del passato e dato che qualcosa si dimentica sempre, se poi si subisce un danno e si fa denuncia, la controparte (cioè l’Avvocatura del Pipiripì) dirà che la parte lesa ha colpevolmente omesso informazioni fondamentali.
La sanzione per chi non si sottopone al rito può esserci o meno, tanto quel che conta è continuare a fornire quattrini ai cagnacci della finanza che giocano con le azioni delle case farmaceutiche e a ciò provvede comunque il Pipiripì con i soldi dei contribuenti.
Magari i renitenti potranno essere annualmente multati con una cifra simile a quella del canone Tv, così tanto per rubacchiare qualcosa senza che nessuno insorga, nella miglior tradizione del Pipiripì e sotto l’occhio del suo garante all’obbedienza, che proprio oggi vanno ad eleggere e di cui il grande capitale a differenza nostra conosce già il nome.